Da piccola mi chiedevo perché mia madre non mi facesse mai quelle palline di riso con il talloncino nero in fondo che vedevo nei cartoni animati, che non si esaurivano mai nonostante i morsi da leone di Zenigata o Lupin, oppure quegli spaghetti che si mangiavano con le bacchette (rigorosamente col risucchio) e che entravano in bocca come una cascata al contrario, dal basso verso l’altro, senza soluzione di continuità. Ciotole di spaghetti in brodo che non finivano mai. La risposta è arrivata con gli anni:
quello era RAMEN e in Italia non esiste!!!!! Finalmente, grazie alla mia amica Daniela l’ho mangiato, a 34 anni suonati. A Milano. Il Ramen più che un piatto della cucina giapponese è un’istituzione. Intere generazioni di italiani si sono nutrite di Ramen senza sapere cosa fosse. Il nome stesso RA-MEN, significa proprio spaghetti cinesi, da mangiarsi sempre accompagnato dai gyouza, i ravioli cinesi, che però in Giappone si fanno alla piastra. Il ramen si presenta in varianti infinite, un po’ come da noi la pizza, ma i gusti principali sono shio, shoyu, tonkotsu. Il ramen, anche se piuttosto sostanzioso e pesante, è cibo da tutte le ore, soprattutto da ubriacatura. I salary-man (impiegati) giapponesi lo mangiano, tutti storti e barcollanti sugli sgabelli, prima di tornare a casa con l’ultimo treno, dopo l’immancabile bevuta post-lavoro coi colleghi. La preparazione del brodo di base, l’anima stessa della ricetta, ha una realizzazione lunga e laboriosa. Bisogna lasciare sobbollire a lungo ossa di maiale, polo, verdure, assieme a ingredienti vari, la cui scelta e proporzioni sono tra i segreti meglio custoditi dell’arcipelago nipponico.
I giapponesi, se proprio vogliono mangiarsi il ramen in casa, si mangiano pure loro quello che ci devi mettere l’acqua calda dentro e aspettare 2 minuti. Il ramen è quasi impossibile da fare in casa. Perciò se volete mangiarlo, fate come me, andate allo ZAZA’ RAMEN di via Solferino a MILANO.