I grembiuli nuovi

C’è un particolare, in mezzo a tutto il dolore di questi giorni, che continua a tornarmi in mente. È il pensiero di Alessandra Falconi che ha raccontato cosa stavano andando a fare gli allegri passeggeri del pulmino che non è mai arrivato a destinazione. Tutti insieme in una piccola osteria nella Val di Lauco avrebbero mangiato la piadina, “Massimo avrebbe fatto i pomodori al forno, noi avremmo sbucciato le patate e sarebbe arrivata la cena, con un sacco di persone belle, con i grembiuli nuovi”.


Questa cosa dei grembiuli nuovi continua a luccicarmi davanti agli occhi come quando ti arriva l’illuminazione della risposta giusta di fronte a una domanda difficile che all’inizio pensavi di non sapere. Di tutte le cose di cui si può parlare intorno a questa tragedia, della bellezza del volontariato, di queste famiglie e dei loro ragazzi con una voglia matta di autonomia, di quello che il Cuore 21 & Centro21 Riccione è riuscito a realizzare per TUTTI, tutti noi insieme intendo, senza prenderci la briga di dividerci tra disabili e non disabili, di fronte alla paura più grande di un genitore, che vorrebbe esistere per sempre solo per poter aiutare i propri figli a cavarsela ma sa che non è possibile, ecco, di tutto questo auguro a me stessa di ricordarmi sempre dei grembiuli nuovi.
Era un viaggio che valeva la pena fare per ritrovare un gruppo di amici in Friuli, una teglia di pomodori al forno, le patate da sbucciare in un fine settimana d’autunno e i grembiuli nuovi.
Sempre di più ci sfugge il senso delle cose, siamo riusciti a svuotare di significato anche i nomi che usiamo per chiamare i sentimenti più puri: l’amicizia è diventata un pollicione virtuale, il cordoglio o la tristezza una faccetta contrita, l’amore un cuoricino e poi via, avanti il prossimo.
Questo viaggio era la sostanza di tutte le cose. Era l’amicizia, quella vera, il “grazie” alla vita per ricordarci ogni tanto che non deve essere sempre così faticoso restare. Era la semplicità delle cose che ci fanno felici: le lenzuola pulite, l’aver cambiato quella lampadina fulminata da mesi, spazzare le foglie di fronte al cortile di casa, mangiare un minestra quando fuori fa freddo. La semplicità disarmante delle nostre vite ci ricorda cosa è importante. I grembiuli nuovi sono importanti perché stringono il cerchio. Le abitudini, solo nostre o comunque di pochi, sono fondamentali per non cadere sotto il peso del cielo. Servono a renderlo meno imponente, meno pesante, a darci la sensazione di poterlo sostenere anche da soli, anche se è troppo grande per noi. E lo sarebbe senza le piccolezze semplici che c’inventiamo per continuare a respirare.


Si rimane increduli finché i morti sono ancora morti e non trovano sepoltura, non trovano “pace”, come si dice. Ma forse i morti sono già in pace, mentre i vivi restano a cercarla. Ecco perché dopo un funerale sembra di aver rimesso le cose a posto, in ordine, almeno in questa vita.
Domani a Riccione sarà il giorno dell’addio e le cose non torneranno per niente in ordine.
Soltanto si andrà avanti come si potrà, provando a continuare a respirare e a fare quello che ci hanno insegnato fin qui e sporcare quei grembiuli nuovi al posto loro.

Mia madre ha i capelli viola

Mia madre attualmente ha i capelli viola (non in questa foto che è di qualche anno fa), dice che glielo ha consigliato il suo parrucchiere e lei lo ha fatto, senza pensarci troppo. È soddisfatta e si sente bella. Mio padre in questo periodo della sua vita dorme poco, cioè meno del solito, perché a differenza mia e di mamma non è mai stato un dormiglione. Domenica gli ho portato dei semi di arachidi da piantare nell’orto. Li cercava nei negozi di sementi e non li trovava da nessuna parte. Gli ho detto che glieli avrei presi io su internet e che sarebbero arrivati in due giorni. Mio padre ama la natura, gli piace vedere nascere le cose, ma soprattutto, da bravo imprenditore quale è stato, gli piace farle nascere lui. Domenica, come sempre, abbiamo pranzato insieme, guardato il telegiornale, mi hanno chiesto le cose che per loro sono “difficili”, poi ho sparecchiato e lavato i piatti con la mamma. Nel pomeriggio io e il babbo abbiamo lavato la mia macchina.

Mi maledirei per tutta la vita se, per inseguire il mito del “successo” mi perdessi tutto questo. Con tutte le differenze e le difficoltà che ho avuto ed ho con la mia famiglia, nonostante tutto quello che non hanno fatto loro e che io non ho fatto, credo profondamente che vederli invecchiare, accompagnarli, essere lì quando hanno bisogno, è quello che io considero un successo. L’unico che conta.

Il mio romanzo “la lista delle cose semplici” (Sperling&Kupfer) è disponibile in tutte le librerie italiane e sugli store online. Ti aspetto!

Goblin mode. Ovvero, il permesso di fare schifo

Adesso “fare schifo” si dice Goblin* mode. Questa fissazione di dare per forza un nome alle cose per farle esistere, come diceva Zygmunt Bauman, ci ha tolto anche quell’impagabile sensazione di non sapere come cazzo chiamare quello stato di estasi che ci meritiamo ciclicamente più volte nel corso della nostra vita ovvero, il diritto a fare schifo, agli altri e a noi stessi.

Chiunque di noi, ha fissata bene in mente l’immagine di noi stessi a “schifeggiare” avvolti nel piumone per tre giorni (citofonare Bridget Jones), con i capelli sporchi, il cucchiaione di gelato appiccicoso sul tavolino di fronte al divano, il pigiama che va in giro con noi dentro, le magliette di peli di cane o di gatto, il sacchetto di patatine vuoto a terra e il telecomando unto, le croste di sugo con annessa colonia di mosche sui piatti abbandonati nel lavabo della cucina. Solo che una volta lo facevamo e basta, senza alcun permesso, senza dirlo a nessuno. Era un segreto solo nostro, una lotta silenziosa e pacifica in contrapposizione alla vita finta dei social, dove chi si allena in palestra non mostra neanche una goccia di sudore, chi si sveglia al mattino ha già una perfetta messa in piega e un trucco leggerissimo, dove nessuno lavora e tutti vivono in case che sembrano uscite dalla copertina di Elle Decor.
Quest’epoca dell’io iper-presente ha sdoganato (e lo trovo positivo) la cellulite, i chili di troppo, i peli sotto le ascelle, essere ubriachi a mezzogiorno (ma alla fine ha vinto Johnny), le mamme pancine al bagno, le mamme pancine con le emorroidi, la pancetta nella carbonara, la principessa Martha che sposa lo sciamano, gli attacchi di panico, che a volte non sono altro che momenti di passeggera fragilità che non devono per forza cronicizzarsi. Va bene, insomma, essere fragili, depressi, demotivati, avere paura per un po’, ma non usare la fragilità come una scusa per poter fare schifo sempre. Quando butti un tuo stato d’animo sui social autorizzi chi ti vede a pensare delle cose sul tuo conto. Chi se ne frega, sì, ok, ma il fatto è che poi quelle cose ti si appiccicano addosso e finisci per credere a quella versione di te raccontata da te e “mediata” dai social piuttosto che a quella reale.
Perché sui social non ci raccontiamo sempre per come siamo (posso dire quasi mai?). Siamo la versione migliore o peggiore rispetto alla realtà, perché? Perché abbiamo un pubblico e di fronte a un pubblico tendiamo a dover avere un ruolo, come il personaggio di un libro o di una serie tv.

Ma se un giorno sei Kate Middleton e un giorno Lady Gaga non possono essere solo cazzi tuoi? Vogliamo davvero dire tutto e volere che si veda tutto di noi?
Che poi c’è Goblin e Goblin. Non si può bluffare: se schifeggi devi schifeggiare sul serio, mica come Meghan Fox o Zendaya o, che ne so, Bradley Cooper o Matteo Berrettini.

(*goblin – sorta di folletti cattivi e riprovevoli, vestiti di stracci e con qualche deformazione corporea, i goblin sono diventati ancora più noti grazie al ruolo nel romanzo Il Signore degli Anelli di J. R. R. Tolkien). 

Ci meritiamo il “Gilettismo”? No, possiamo scegliere.

Quando qualcosa lascia il segno nell’arte, nella letteratura, nella politica, nel giornalismo, perché è fatta talmente bene da quella persona che non è attribuibile a nessun altro, ci si inventa un aggettivo o un sostantivo per dare un nome a quella cosa fatta in quel modo inconfondibile (felliniano, ad esempio).

Lo stesso succede quando una cosa è fatta talmente male da non poter avere che il nome di chi la fa così male. Il “Gilettismo” (ma ce ne sono altri) è un modo di fare giornalismo che non dovrebbe trovare spazio da nessuna parte. E invece. Confuso, intriso di narcisismo, ripetitivo, populista, demagogico, non informato, alla “viva il parroco” come si dice, tanto tra dieci minuti parliamo della moda dei fenicotteri gonfiabili sulle spiagge di Rimini. La scossa più profonda però me l’ha data Sallusti che, comodamente in collegamento dopo aver assistito a Giletti che è andato a Mosca a farsi bullizzare fuori dal Cremlino, si ribella e dice che non ci sta, che lui il collegamento non lo fa più e rinuncia al compenso. Rinuncia al compenso. I talk show italiani, che dovrebbero parlare di qualcosa, aiutarci a capire, raccontarci la guerra, la vita, la società, la politica, sono ormai questo. Il giro di amici degli amici, sempre gli stessi, giornalisti sotto compenso che parlano con altri giornalisti di cose lontane, raccontate per sentito dire o viste in qualche filmato sui social (breve perché sennò ti rompi). Grazie alla pandemia ora possono farlo dal grande divano di casa loro con sullo sfondo gli scaffali pieni di libri, immancabili per sembrare intelligenti, come a volersi giustificare delle stronzate che stanno per dire.

Comunque possiamo sempre scegliere, non dimentichiamolo mai.

Una recensione è per sempre.

Questo è il mio romanzo “la lista delle cose semplici” Sperling & Kupfer. Leggendo le recensioni su Amazon, al di là dell’ovvia gratitudine, ho di nuovo la conferma di cosa sono capaci di fare i libri, le canzoni, l’arte in generale, se ci penso bene. In ognuna di queste cose cerchiamo qualcosa di noi: quando Vasco canta “Sally” siamo tutte Sally, quando leggiamo l’ultima riga di un libro, siamo stati tutti un protagonista di quel libro per il tempo che ci abbiamo messo a leggerlo. Insomma, arriva un punto in cui le storie non sono più solo nostre, tu le consegni al mondo e loro vanno da chi devono andare. Siamo stati tutti, almeno una volta nella vita, come ubriachi che sanno di avere una casa ma non ricordano bene dove sia. Però c’è. Si tratta di trovare la forza di cercarla, anche barcollando.

Potete acquistare il romanzo direttamente dal link che trovate qui sopra.

Sarò felice di leggere ancora le vostre recensioni. Sempre grata. 

La lista delle cose semplici a Tavullia

Avete mai visto una gioia? Io sì, il 18 giugno 2021 a Tavullia, alla presentazione del mio romanzo “la lista delle cose semplici”. Riuscirò (forse) ad elaborare qualcosa di più intelligente più avanti (comunque non ci conterei troppo), ma adesso no. Adesso è il tempo di ri-vivere, ri-vedere, ri-ascoltare, ri-piangere e ridere. In una sera bella di questa estate che ci viene restituita piano piano, sotto uno spicchio di luna appannata nella piccola piazza di fronte casa mia, c’erano almeno 200 persone ad ascoltarmi e sono rimaste lì, fino alla fine, ognuno con la sua copia del libro in mano, a piangere, ridere, cantare, a volermi bene. La lista delle cose semplici è tornata a casa. Grazie Tavullia.

A Tavullia ripartono gli eventi: sold out per la presentazione del libro di Lucia Renati

presentazione del libro di Lucia Renati Tavullia 

https://www.viverepesaro.it/2021/06/22/a-tavullia-ripartono-gli-eventi-sold-out-per-la-presentazione-del-libro-di-lucia-renati/979022/21/06/2021 – Tantissime persone l’altra sera in piazza Gnassi hanno assistito alla presentazione del libro “La lista delle cose semplici” scritto da Lucia Renati ed edito da Sperling&Kupfer.

Ispirato alle vicende autobiografiche dell’autrice il romanzo racconta la storia commovente di rinascita e speranza di una giovane donna dopo una terribile tragedia. L’autrice, intervistata dalla direttrice di Icaro Tv Simona Mulazzani, è nata a Pesaro nel 1981 ed è cresciuta a Tavullia fino ai 20 anni circa quando si è trasferita a Rimini per iniziare a lavorare per un network radiotelevisivo locale. È stata caposervizio della comunicazione della Comunità di San Patrignano, corrispondente per la trasmissione Tagadà di LA7 e ha collaborato con Donna Moderna e Vanity Fair. La presentazione del libro dell’altra sera, avvenuta nel rispetto delle misure anti Covid-19, ha segnato la ripresa degli eventi a Tavullia dopo l’emergenza sanitaria.

“Una serata bellissima, da sold out – commenta l’assessore al Turismo di Tavullia Patrizio Federici – Tanta gente ed una grande scrittrice che ha messo a nudo le sue fragilità e le conseguenze della tragedia che ha colpito la sua famiglia. Riparte la stagione degli eventi e speriamo che questa iniziativa possa segnare davvero un punto di ripartenza anche per le attività turistiche e culturali di Tavullia dopo l’emergenza sanitaria. Con prudenza cerchiamo di riconquistare lentamente una normalità che è fatta anche di eventi culturali e momenti aggregativi come quello, bellissimo ed emozionante, vissuto l’altra sera>>.

LA TRAMA

Camilla e Sara sono gemelle. La lista delle dieci cose più importanti da fare nella vita l’hanno stilata insieme, a nove anni: arrivare a cento salti, dire la verità, baciare solo per vero amore… Quando Sara, appena undicenne, viene a mancare tragicamente, Camilla si trova a dover crescere senza la sua metà, a dover ricalcolare la rotta della sua vita. Ma come si riparte dopo un dolore così grande? Così Camilla per anni relega in un angolo di cuore quel tassello di vita che però compare in ogni sua scelta e la tiene bloccata al passato. Cinica e disillusa, ora che è adulta, lavora come giornalista in una tv locale. Impermeabile all’amore di Andrea, il fidanzato devoto che prova con la dolcezza a raggiungere il suo cuore, crede che i sentimenti siano sopravvalutati. A scalfire la sua corazza ci provano anche Tea, amica d’infanzia e collega un po’ fricchettona, e i suoi genitori, Walter e Teresa, che convivono con un dolore inimmaginabile senza parlarne mai. Perché perdere un figlio è una cosa alla quale non si riesce a dare un posto, né fuori, né dentro di noi. Vent’anni dopo la morte di Sara, Camilla ritrova per caso quella lista di cose semplici scritta da bambine e non riesce più a ignorarla. Il tentativo di mettere in pratica quel decalogo farà venire a galla un potente segreto di famiglia.

(Nella foto, il Sindaco di Tavullia, Francesca Paolucci, consegna i fiori a Lucia Renati la sera della presentazione)

La lista delle cose semplici. Storia di come il dolore e la paura diventano piccoli se…

Molte cose non le sapevo, prima di scriverle. Per questo, il mio romanzo “La lista delle cose semplici”, non parla di me, ma parla a me e a tutti quelli che, nel mezzo del casino della vita, hanno avuto a che fare con uno o più grandi dolori e paure. Demoni, allucinazioni, perdita del senso della vita, domande. Per tutti quelli che, almeno una volta, si sono trovati a barcollare per strada come ubriachi, sapendo di avere una casa, ma non ricordandosi bene dove fosse. Inauguro con il mio romanzo d’esordio questa nuova sezione del mio blog: “un libro per amico”, nella quale vi consiglio letture per sopravvivere in quest’epoca di felicità miniaturizzata, tra lockdown e coprifuoco.

Ci si abitua anche alle cose più terribili. Alla morte di un padre o di una madre, di un fratello, di una sorella, di un amico, alla fine di un amore. Ci si abitua ai non-amori, ai non-abbracci, alla non-vita, finché sembra tutto normale. Ma quanto possiamo resistere? È vero, siamo capaci di ricalcolare le nostre vite, come fa il navigatore quando sbagliamo strada, e ripartire. Io ho fatto così dopo che mi è successa una cosa che non avevo minimamente messo in conto.

la copertina de “la lista delle cose semplici”

Quando ho iniziato a scrivere “la lista delle cose semplici” ho dovuto far accomodare accanto a me la bambina di undici anni che avevo ignorato e che, improvvisamente, dopo quasi trent’anni di quieta convivenza, aveva alzato la mano per dire la sua. Allora, mi sono re-immersa nella placenta dei ricordi e, galleggiando in quel liquido che mi nutre e mi fa essere viva, ho ascoltato. E lì, in quell’habitat primordiale, ho capito che quello che mi era sembrato normale per tutta la vita e a cui mi ero abituata, era assolutamente non-normale.

Sono stata una bambina molto felice e poi molto triste. Ho perso molte cose della mia infanzia che non sono più tornate e ne ho trattenute altre, inconsapevolmente, che ancora oggi mi vengono in aiuto nei momenti di merda. Quando sei piccolo non hai idea di che cosa voglia dire crescere, diventare grandi. Che poi “grandi” rispetto a chi? Ai bambini? Mah, non saprei. Io dico che più diventi grande, più hai paura. Da piccolo hai quella del mostro sotto il letto, ma non quella più spaventosa di tutte: delle cose che non esistono, che non sono ancora, e che forse non saranno mai. Mentre cresci, cerchi di portare a casa la pelle, poco importa se stai sanguinando, se hai perso un braccio o una gamba, l’importante è salvarsi. A un certo punto, però, in questa roba aggrovigliata che è la vita, che ti chiede di essere all’altezza e di crollare, di ridere e di piangere, di andare e stare ferma, di perdere e di trovare, di cominciare e finire, di amare e di farti amare, proprio nel momento in cui dovresti “essere grande”, si riaffacciano tutte le domande che hai lasciato in sospeso, le cose non fatte, o fatte per compiacere gli altri, non dette, non provate. Le emozioni e i sentimenti ai quali hai rinunciato per non doverci fare i conti.

Nel mio romanzo c’è un grande dolore che avvolge tutto, che asciuga le lacrime e toglie le parole. C’è una bambina che diventa grande troppo in fretta e che invece avrebbe voluto ancora giocare con le farfalle in giardino con sua sorella. C’è la sacralità perduta della famiglia che non mantiene le promesse, ma più di tutto c’è il sentimento che sottende a tutte le nostre vite: la paura. La paura intangibile di essere liberi, di essere felici, di andare incontro ai sogni, di dire la verità e di ascoltarla. Ma c’è anche una forza silenziosa, una resilienza, un’obbedienza testarda e al contempo una ribellione al destino, che ha lanciato i suoi dadi senza chiederti il permesso, plasmando le vite di tutte le persone che fanno parte di questa storia, la mia storia. Vorrei che i miei lettori potessero riconoscervi un po’ della loro perché è questo che fanno i libri: aprono ferite ancora sanguinanti, ci fanno morire e rinascere più forti, più vivi, più “noi”, ci fanno alzare le saracinesche di stanze con secoli di polvere con coraggio e maleducazione. Scrivere è prendersi il permesso di essere pazzi, di disobbedire. Alla fine ci siamo noi, con le nostre piccole vite, le nostre nevrosi, i nostri demoni, il nostro coraggio e la nostra lista di cose importanti (ognuno ha la sua), che sono sempre di una semplicità disarmante.

Così, impariamo che siamo proprio noi il miracolo che andiamo cercando.

Il mio pezzo per il blog di Sperling&Kupfer

Fab40

“Come sarai da vecchia, tipo a 40 anni?”. Chiedevo alla me stessa adolescente di 13-14 anni, più o meno. Avevo i brufoli in faccia, l’apparecchio ai denti, i capelli informi e i baffi da sudamericano alla Pablo Escobar, e la sola idea di avvicinarmi a qualcuno, anche solo per chiedere il permesso, mi terrorizzava. Non ho niente da insegnare a nessuno (sono ancora troppo giovane), ma forse due cose fino a qui le ho imparate.

Sono stata una bambina molto felice e poi molto triste. Ho perso molte cose della mia infanzia che non sono più tornate, se lo avessi saputo, avrei imparato a memoria ogni gesto, ogni odore, ogni sguardo, per trattenerli come in un imprinting primordiale e tirarlo fuori all’occorrenza. Ne ho trattenute altre, inconsapevolmente, che ancora oggi mi vengono in aiuto nei momenti di merda. Ma quando sei piccolo non hai idea di che cosa voglia dire crescere. Diventare grandi. Che poi “grandi” rispetto a chi? Ai bambini? Mah, non saprei. Io dico che più diventi grande, più hai paura. Da bambino non ce l’hai la paura, o meglio, forse hai quella del mostro sotto il letto, ma non quella più spaventosa di tutte: delle cose che non esistono, che non sono ancora, e che forse non saranno mai.

È che all’inizio della vita è un po’ come rimanere coinvolti in un incidente stradale e trovarsi incastrato tra le lamiere. Forse hai perso una gamba, forse stai sanguinando, ma adesso non importa, non senti niente, devi salvarti. La cosa più importante è portare a casa la pelle. Alle ferite penserai dopo, un giorno, più avanti. Così, quando ti sei tirata fuori a fatica dalla macchina, piano piano arrivano le domande che hai lasciato in sospeso, le cose non fatte, o fatte per compiacere gli altri, non dette, non provate. Le emozioni e i sentimenti ai quali hai rinunciato per non doverci fare i conti. Poi, mentre si lì che percorri da solo la tua strada, ti succede la vita. E la vita è un gran casino, una roba aggrovigliata che ti chiede di essere all’altezza e di crollare, di ridere e di piangere, di lavorare e stare ferma, di perdere e di trovare, di cominciare e finire, di amare e di farti amare.

Se c’è una cosa che ho imparato fino a qui è che le cose le capisci sempre dopo, mai mentre ti succedono e tutte, anche le più brutte o le più stupide, sono importanti allo stesso modo. “Niente se ne va prima di averci insegnato quel che dobbiamo imparare” adesso è chiaro, fottuto Buddha. Ora lo so.

Oggi compio 40 anni e vorrei averne 100. Perché non potrà che andare meglio. Questa mattina mi sono guardata allo specchio e ho visto una donna bella. Bella perché sincera, vera, con il cassetto dei sogni quasi vuoto (ne mancano forse un paio per svuotarlo del tutto), con il lusso delle abitudini, un lavoro e dei colleghi meravigliosi con i quali ci diciamo “scusa”, “per favore” e “grazie”. Ho scoperto quanto sia importante solo dopo che sono stata in un altro posto, dove tutto questo non c’era. Ho costruito il mio posticino in questo pezzo di mondo pieno di grazia e di bellezza, senza abracadabra e senza bisogno di chiedere favori, né farne. Mi muovo solo se ne vale la pena, solo se provo del bene, solo se posso restare nel recinto del mio talento (non autoproclamato), solo se credo di poter fare una cosa e farla bene. Non mi attirano le invidie, le miserie, i pettegolezzi, le piccinerie, gli asini travestiti da cavalli. Continuerò ad allontanarli, sempre. Il tempo mi ha dato ragione e aspetto di raccogliere altri frutti, a breve. Ho quarant’anni e li sento tutti. Mi fanno ridere quelli che dicono “non so come ci sono arrivato/a” perché io, invece lo so benissimo, me li ricordo uno per uno.

Quindi, cara Lucia bambina, oggi ti posso rispondere e ti posso dire che ho capito che la domanda non è “come” ma “chi” sono a 40 anni? Sono una che può dire “grazie”. Grazie a me stessa, per avercela fatta ad accettare di essere imperfetta. Miracolosamente imperfetta e tu, piccola mia, guarda sempre tra le cose semplici, perché è lì che stanno le cose davvero importanti.

Vagine all’uncinetto.

Devo dire la mia sulla vagina, avendone una. “In quei giorni”, piuttosto che farci fare la ruota (notare l’uso corretto del “piuttosto che”…), il bungee-jumping, il rafting nel Grand Canyon, farcela cantare in un piano bar sotto sembianze di una pesca, una conchiglia, un origami, addirittura cucita all’uncinetto, regalateci gli assorbenti e cancellate il libero mercato su questo bene. Prendiamo esempio dalla Scozia. Il rispetto e la celebrazione della vulva non passa dal mostrare un trasgressivo assorbente macchiato di rosso, né nello sdoganarla dedicandole un musical o una giornata mondiale.

Di coglioni è pieno il mondo, questo si sa, e purtroppo la pandemia li ha evidenziati come lo Stabilo Boss giallo fluo ma, almeno per ora, non mi risulta che ci siano negazionisti del ciclo mestruale.

Durante il lockdown mi sono trovata a dover fare rifornimento del suddetto bene (non sapendo quanto sarebbe durata l’emergenza), e ho fatto una cosa che non avevo mai fatto prima: i conti. Se davvero qualcuno pensasse che vivalavulva, come inneggia il famoso spot, allora, un assorbente che non mi faccia diventare la vagina come il wet market di Wuhan, non mi costerebbe 4,99 euro e con l’IVA al 22%.
Ci sono anche quelli a un euro, dite. Ok. Ma se non voglio (e non voglio) gettare la mia vagina nell’umido insieme agli scarti del minestrone o della zuppa di pesce, per comprarmi qualcosa che vada a preservare la cosa più preziosa del mio corpo, sono costretta a pagarla di più.
Per darvi un’idea, indossare un assorbente scadente è come se avvolgeste il vostro pene nella carta stagnola sotto il costumino 100% acrilico il 12 luglio in spiaggia, senza ombrellone e con il divieto di balneazione.
Pensate sia divertente? Provate. Non l’abbiamo chiesto noi di avere sbalzi ormonali 10 giorni al mese, i brufoli, gli spasmi al basso ventre, le gambe gonfie come un’ elefantessa del Circo Orfei. Anche chi ha bisogno di pannolini per i più vari usi, tipo l’incontinenza, pensate si diverta a bardarsi là sotto e a dover pagare un prezzo esorbitante per non emanare odori da fogna di Calcutta a fine giornata? Eppure, negli spot partoriti da fior fior di strapagati creativi, viene fuori che il problema è se riuscire o no a mettersi la gonna attillata. Un pò come se, in piena pandemia, il dibattito fosse se aprire o no le piste da sci a Natale (ah, sta succedendo?).

Voi non amate la vagina. Perché se la amaste, capireste che il “segreto” di ognuna di noi è anche la vostra più grande fortuna. Ciononostante, volete indurci ad una menopausa precoce, a desiderarla, a bramarla con tutte le nostre forze per porre fine all’eterno dilemma “con ali o senza ali?”, distesi o ripiegati, anatomico o superlungo, con micro o macrofori, in cotone, traspirante, flusso normale, medio, abbondante.
Dovrebbe essere una battaglia comune per l’origine del mondo. Uomini e donne insieme. Permetteteci, senza distinzioni di classe, di mettere sulle nostre mutande qualcosa che si avvicini più a una soffice torta paradiso che all’odore del napalm al mattino (cit. Colonnello Bill Kilgore).
I vostri figli, nipoti, amici, cugini parenti stretti e congiunti vari, sono nati grazie a questo meraviglioso mistero che è all’origine della specie umana. Quindi no, le nostre vagine non sono all’uncinetto e se noi non avessimo le nostre cose, voi non avreste le vostre.

I ragazzi della volante 2, per quanto ne so.

Ogni notte, mentre noi siamo al caldo sotto le nostre lenzuola, c’è qualcuno che si alza dal letto (o dal divano), o che va via prima da una cena con gli amici, o va a dare il bacio della buonanotte ai suoi bambini, o saluta i suoi genitori, o sua moglie, perché deve andare a lavorare. I più fortunati lo fanno di persona, quelli che sono lontani si accontentano di una telefonata a casa prima del turno, per dire che «va tutto bene» lasciando madri e padri, mogli e mariti, sorelle, fratelli, nonni, nipoti, a pregare che abbia ragione. Chi “attacca” all’una, ci tiene ad arrivare prima per dare il cambio al collega del turno prima del suo. Qualcuno non ha riposato per non togliere tempo alla famiglia, agli affetti, e dice «dormirò domani». Allora si prende un caffè, infila la divisa, ed esce di casa.

Se di tutto questo non ne sapete nulla, vi prego, state zitti.

Se siete solo capaci di sputare veleno o, peggio, di cercare un significato politico nel difendere i poliziotti, non leggete. Perché a me, dei Salvini e degli Zingaretti, dei Rubio o dei Saviano, non me ne frega proprio un (c….) niente.

La divisa appesa nell’armadio sembra un uomo morto. Senza testa. Quante volte l’ho guardata e ho pensato al fatto che quella divisa fosse certamente un simbolo, come ogni divisa e ogni bandiera, ma che in realtà non fosse nulla senza uomini e donne dentro. Uomini e Donne con la U e la D maiuscole perché, esattamente come chi non indossa una divisa, i poliziotti non sono tutti uguali. Sono fallibili, attaccabili, fanno cazzate (anche molto grosse). Ma c’è chi (ed è la maggior parte) in quella divisa ci crede, anche se non è della sua taglia, anche se i gradi si scollano e le fondine sono difettose, anche se aspetti dal Ministero una camicia nuova o un giubbotto per l’inverno da mesi (se non anni) e, nel frattempo, devi usare la polo a maniche corte. Anche per pochi spicci alla fine del mese.

Ma io quella divisa non me la devo mettere. Io so che a me il cuore batte in modi diversi per tanti motivi: ogni tanto, non molto spesso, batte perché ho paura. Immaginatevi di sentire battere il cuore ogni giorno per la paura. Perché il vostro lavoro vi espone quotidianamente a situazioni di pericolo. Lo dice molto meglio di me Lorenzo Borselli (poliziotto) che oggi ha scritto questo sulla pagina asaps.it (leggi tutto il suo articolo):

«Noi abbiamo p-a-u-r-a, chiaro? Paura perfino di aiutare il controllore del treno a farsi dare il documento da chi si rifiuta, paura di ammanettare un sospetto con le mani dietro la schiena, paura di contenere una persona in stato di agitazione, paura di tenere un arrestato o un fermato in una camera di sicurezza (dove sia a norma, perché la maggior parte non lo è). Il taser non ce l’ha quasi nessuno, il peperoncino idem, delle fascette di plastica non ne parliamo. Le divise sono poche, di taglie sbagliate, le fondine difettose, i gradi si scollano, le auto civetta mancano, le radio non ci sono, le leggi non servono, le multe si annullano, quando prendiamo un corrotto non lo cacciamo, anzi lo rimettiamo al suo posto, perché con la scusa del terzo grado di giudizio obbligatorio nel frattempo i reati si prescrivono e quindi, bomba libera tutti.
Siamo persi, disorientati, impauriti. Così soli in quello che facciamo, che abbiamo paura anche solo a parlare di ansia, perché poi arriva uno psicologo che ti toglie pistola e tesserino e ti mette a casa senza un perché, come se mettere a posto le carte bastasse anche a sanare le coscienze. Saremmo bugiardi se non dicessimo tutte queste cose. E ipocriti».

Come si fa a non avere paura? Chi ce la fa, la esorcizza, prendendola in giro. Lo facevano Matteo e Pierluigi che battezzavano l’inizio del turno facendo risuonare nell’abitacolo della volante 2 la canzone “figli delle stelle”, la colonna sonora del loro coraggio. Matteo e Pierluigi erano due poliziotti e due amici. Pierluigi Rotta e Matteo Demenego, di 34 e 31 anni.

Finché non cominceremo a dire noi a loro: «anche voi potete stare tranquilli, se avete bisogno, ci siamo», come cittadini e come persone, non potremo raccontare altre storie, storie a lieto fine. Un paese in cui fa più rumore un poliziotto che fa fare un giro su una moto d’acqua ad un ragazzino in una mattina d’agosto (senza nessuna emergenza in corso), di un poliziotto che muore, non vuole storie a lieto fine.

Sogno un paese in cui i poliziotti si mettono in macchina per il turno di notte con una canzone e hanno facce pulite e un cuore che batte sotto le divise, non solo per paura. E aspetto il giorno in cui sarà lo Stato a dire ai suoi uomini in divisa «dormite sonni tranquilli».